La strage in mare

di Francesco Caracciolo

Un naufragio al largo della costa calabrese il 26 febbraio 2023 è stato disastroso. Oltre settanta persone di tutte le età perirono tra le onde alte a poche decine di metri dalla spiaggia di Cutro. Si salvarono giungendo a riva otto decine di persone. Come era avvenuto in occasione di altri simili catastrofici naufragi, in Italia e ovunque giunse la notizia, seguirono profondi sentimenti di dolore e di compassione per l’incomprensibile perdita di tante vite. Con il dolore, si diffuse pure il dubbio che il naufragio si sarebbe potuto evitare e le vite si sarebbero potute salvare. Si impose la necessità di cercare e trovare l’eventuale colpevole di tanta strage.

Certo, prevenire il naufragio e salvare tante vite sarebbe stato un obbligo, un dovere morale, umano, civile, politico e giudiziario. Di fatto, per errore di valutazione o per impossibilità, cioè per le segnalazioni fatte da Frontex o per la distanza del prossimo porto di Crotone dove c’erano idonee navi di soccorso, il soccorso e il salvataggio non ci sono stati o, meglio, sono seguiti con ritardo.

Per evitare il disastro, dunque, i soccorritori avrebbero dovuto essere stati informati con precisione della presenza in alto mare di una barca in difficoltà e avrebbero dovuto essersi recati in alto mare in cerca della barca oppure avrebbero dovuto accorrere subito dopo il naufragio. Ma le informazioni date dal ricognitore di Frontex erano state errate, avendo segnalato una barca non in difficoltà ma in buone condizioni, e il soccorso fu tardivo per la distanza di un’ora di navigazione dal porto di Crotone. I soccorritori non uscirono in alto mare e non salvarono i naufraghi. Non poterono farlo. Da questa loro impossibilità all’avere essi omesso o non recato in tempo il soccorso di cui furono accusati, passa in mezzo un oceano di menzogne e di speculazione politica, elettorale, di bassa lega. Si sa, molti italiani sono altruisti, generosi, accoglienti, buonisti e teneri di cuore. Essi, per dare sfogo a questi loro requisiti, fecero e fanno del naufragio e della strage un cavallo di battaglia. Con discorsi contorti e infiniti, tanti benpensanti accusano i soccorritori di non avere prestato soccorso e, addirittura, di non avere evitato la strage uscendo al largo in cerca di una barca che era stata segnalata in buone condizioni. Gli stessi accusano il ministro, il governo e il partito politico avversario di omissione, di incapacità e di criminalità, e chiedono le dimissioni di tanti responsabili. Questo giochetto elettorale, questo al lupo al lupo, si protrae in Italia da oltre mezzo secolo, mentre il Paese affonda e sta affondando anche a causa di quelle barchette di immigrati che giungono dai quattro venti tra l’indifferenza, la cecità e le velenose e assurde accuse lanciate a ruota libera.

Certo, gli Italiani sono tutti ansiosi e addolorati, come lo è ogni uomo anche il più crudele, per la strage avvenuta nel mare di Cutro in Calabria. Come le notizie degli immigrati dispersi e morti nel mar Tirreno o quelle dei disagi subiti dagli stessi nei centri di accoglienza colpiscono e scuotono la sensibilità di ogni italiano, così le notizie della strage di Cutro accrescono e rinnovano il dolore che di solito l’uomo prova quando muore un suo simile. Il dolore che ognuno prova è un sentimento universale, umano. Nessuno può dire di essere solo lui ad avvertire dolore e strazio per i disastri e le morti e di essere solo lui capace di prevenirli. Nessuno può attribuire ad altri la colpa di essere destituito di un tale sentimento umano e cercare prove inesistenti di siffatta mancanza.

Tra il dolore per le stragi e l’accusa di colpevolezza non c’è nesso alcuno, ma è facile inventarlo accusando i propri simili di essere stati e restare indifferenti e inerti. Nella foga con cui s’incolpano altri, si trascura di allungare lo sguardo un po’ più oltre e di scorgere e capire che cosa c’è al di là di quella strage e di quelle accuse. Eppure da tempo ormai si profila all’orizzonte un preoccupante e temibile futuro, un enorme spettro, un mostro in movimento che può sommergere e affondare l’esistente. Miliardi di esseri umani, come una parte di essi ha già fatto nell’ultimo secolo, cercano di spostarsi verso Paesi meno poveri e meno turbolenti. Questi Paesi meno poveri che ne sono la meta, sono sovrappopolati, sovraccarichi di una popolazione che insiste su territori insufficienti, angusti, in gran parte coperti di cemento e in parte abitati da esseri flosci, da disoccupati veri o fittizi, da immigrati. Almeno due degli otto miliardi di abitanti del pianeta sono irrequieti, instabili, scontenti, rivoltosi, sfaticati. Sono divenuti tali per il millenario logorio e per le connesse corruzione e corrosione che i molti accidenti e gli ostacoli insidiosi hanno generato lungo l’impervio percorso verso l’attuale civiltà e il relativo benessere. Sono divenuti tali, aggravando più del solito il loro stato negli ultimi due secoli, soprattutto a causa di subdoli, perniciosi e letali vizi, nascosti nelle pieghe del benessere. Almeno cinque degli otto miliardi, in milioni di anni, sono sempre stati tranquilli trascorrendo quieti la normale loro esistenza, nelle loro famiglie, nelle loro tribù, nei loro paesi. Il loro ambiente era il loro mondo e loro non ne desideravano un altro migliore. La loro quieta esistenza e la loro tranquillità vennero meno nel Novecento e specialmente nella seconda metà del secolo, e si trasformarono nel loro contrario, nell’irrequietezza, nella frustrazione e nel malcontento. L’invenzione dei mezzi di comunicazione e di informazione e la diffusione dei mezzi di trasporto hanno violato la loro quiete e ucciso la loro tranquillità. Radio, televisione e poi computer, telefono, treni ed autotreni hanno inserito il veleno della frustrazione e del malcontento in individui, in comunità e in popoli interi che ne erano scevri. I nuovi mezzi di informazione hanno mostrato loro ogni aspetto della società del benessere. Le accecanti luminarie, le festose e fastose manifestazioni, i consumi spesso smodati, ogni conquista della civiltà e ogni stravaganza della ricchezza sono stati oggetto dei servizi dei media diffusi in tutto il mondo. Le seducenti immagini e i resoconti di quei servizi avvelenarono individui, tribù e popoli interi che finora erano vissuti tranquilli ed appagati. Molti di costoro trovarono nei numerosi mezzi di trasporto e nel vento della globalizzazione la facile opportunità di trasferirsi e di giungere alle terre illuminate e ricche del benessere. Milioni di esseri umani migrarono, altri milioni continuano a migrare e sfoltiscono così i loro prolifici Paesi e sovraccaricano gli angusti Paesi benestanti.

È possibile che tanta innumerevole migrazione continui? La sua prosecuzione non genera, prima o poi, lo stravolgimento dei Paesi benestanti, la fine della loro civiltà e, quanto meno, la mutazione della loro identità?

La previsione che si può fare suggerisce che, se l’attuale stato di cose non s’interrompe, come cercano di fare alcuni Stati europei e gli Stati Uniti d’America, i Paesi oggi benestanti non solo diverranno presto sovrappopolati, caotici e insicuri fino all’inverosimile, ma la loro identità e la loro civiltà muteranno profondamente fino a scomparire ed essere sostituite. Si trasformeranno come si sono trasformati i Greci e i Romani nell’antichità, i loro popoli, le loro istituzioni e la loro civiltà, a causa anche del loro cosmopolitismo. In questo trapasso, Greci e Romani hanno ceduto le loro conquiste civili, ma cruente e sanguinose, ad altre comunità e ad altri popoli, ad eredi che si rivelarono spuri, nei quali persistette solo un languido ricordo del glorioso passato di un popolo di cui ereditarono il territorio. Nessun ricordo essi ebbero di coloro che nell’antichità erano stati difensori del cosmopolitismo e dell’accoglienza senza limiti dei nuovi venuti. Nessun ricordo, certo, avranno i posteri di coloro che oggi si affannano a difendere il dovere e l’utilità dell’accoglienza e delle porte aperte a tutti i costi. Nessun ricordo di coloro che oggi si spendono per dimostrare la loro umanità e generosità cercando di scoprire colpe inesistenti di reati inventati. Nessun ricordo di coloro che oggi cercano di affossare chi difende la sopravvivenza dell’identità e dell’esistenza del proprio Paese e della civiltà e della società in cui vive, che è costata tante privazioni, tante rinunce e tanto travaglio. Il ministro dell’interno, Piantedosi, spiegò che la causa della strage era da cercare nell’imprevidenza degli immigrati che non dovevano partire da così lontano anche se spinti dalla disperazione. Questa spiegazione del ministro aveva lo scopo di chiarire che c’era un solo modo per fermare il continuo afflusso di immigrati in Italia: indurre gli innumerevoli potenziali migranti a restare a casa loro, nel proprio Paese, ed evitare così di invadere l’Italia. Il suo fu ed è un intento onesto, ma quella sua spiegazione, quell’unica ufficiale voce autorevole che si levò, fu sopraffatta da insensate e ottuse grida ipocrite, con cui oppositori e faccendieri chiesero e chiedono le dimissioni di chi si è permesso di dire che bisogna trovare il modo di difendere il Paese.

 

Francesco Caracciolo